Sicurezza e spazio come bene comune inalienabile
Lorenzo Carapellese
Parlare, discutere, scrivere ed immaginare di sicurezza stradale è sempre opportuno. Specialmente dopo due o tre annate in cui sembrava che morti e feriti, in primo luogo ciclisti e pedoni, fossero in diminuzione.
Sappiamo che la velocità gioca un ruolo primario nella decimazione di giovani ed anziani nonché nella triste conta del dolore. Oramai conosciamo a memoria ed abbiamo digerito decine e decine di diapositive in cui si paragona la velocità al cadere giù da una finestra dal primo, secondo, terzo piano e così via, a seconda della velocità dell’auto che colpisce le persone che come unico riparo hanno la loro pelle.
Sappiamo anche che il codice della strada (sempre quello “nuovo” che poi nuovo non è) indica rimedi, detta norme e condizioni per rendere strade, ciclabili e marciapiedi sicuri. Ma poi?
Ma poi succede che per motivi prevalentemente e squisitamente politici (paura di perdere voti e lobbies particolarmente forti e danarose), i passi in avanti concreti verso la sicurezza stradale (ciclistica e pedonale in primo luogo) sono veloci come quelli del bradipo, se non a volte addirittura di verso opposto, come quelli del gambero.
È ora quindi di rovesciare il paradigma: è forse tempo di parlare di spazio come bene comune unico, indivisibile ma adattabile a diversi usi che non siano solo quelli dell’automobile? Di dire che forse a spazi comuni belli, piacevoli, sicuri, poco rumorosi hanno diritto anche pedoni e ciclisti? E pure quelli che salgono e scendono da un mezzo pubblico, sia esso taxi, bus e metropolitana?
E che forse tale diritto lo devono avere i ragazzi e le ragazze quando entrano ed escono da scuola? Anche a dispetto dei loro genitori su quattro ruote per quattro che a orari fissi, come le maree, invadono piazzali, strade antistanti le scuole, aiuole e giardinetti, parcheggiando in doppia e tripla fila?
Si, penso di si. E non è necessario inventarsi chissà mai quali tecniche, infrastrutture e tecnologie anche se possono aiutare. L’importante è partire dallo spazio urbano considerandolo come bene comune che deve essere disponibile per tutti.
Il tema è diventato nel tempo talmente ovvio che diverse città nel mondo, chi prima chi dopo, hanno agito secondo questa direzione di pensiero: certo, avvalendosi anche di norme di ingegneria stradale, ma soprattutto di esperienza e buon senso. Non vorrei fare una graduatoria delle città più virtuose o di quelle comunità urbane che sono arrivate prima (il palmares andrebbe senz’altro alle città olandesi e danesi), ma piuttosto cercare di dimostrare che la sicurezza stradale non è solo divieto, limite, cartello, corsia riservata, dosso, segnaletica, illuminazione) ma una condizione culturale. Una questione di civiltà urbana, un fatto di relazioni sociali educate e gentili, non aggressive. E quindi anche una opportunità economica che origina dalla dinamica lenta del passeggiare e pedalare, che rendono molto più al commercio che non l’arrivare veloce, parcheggiare in doppia fila e comprare a sparo giusto quello che si aveva in mente di comprare.
Ecco allora che Monaco, Londra, New York, Barcellona, Melbourne, Bogotà, Atlanta, Copenaghen e Victoria Gasteiz, solo per citare alcune municipalità virtuose, già da tempo si sono decise ad affrontare, per poi portare ad un livello di soluzione più vicino ai tempi d’oggi, il convivere di cittadini con eguali diritti anche se “mobili” su mezzi diversi nello stesso tempo e nello stesso spazio urbano.
A Monaco semplicemente hanno tolto una carreggiata intera da alcune strade per poi trasformarle in comode piste ciclabili. Mentre a Poyton in Inghilterra, un incrocio pericolosissimo è stato trasformato in una spazio che non solo è sicuro ma che aiuta e si integra con il vissuto urbano semplicemente (ma intelligentemente) differenziando e rialzando la pavimentazione stradale, disegnando un percorso sinuoso, di fatto facendo operazione di traffic calming, rinnovo urbano, qualità visiva e di accessibilità particolarmente efficace per ciclisti, pedoni ed anche disabili senza mortificare il traffico di attraversamento.
A New York la geniale Janette Sadik Khan (ex Transport Commissioner della Grande Mela) ha addirittura pedonalizzato la mitica Time Square da un giorno all’altro, semplicemente ricorrendo a pochi cartelli stradali, vernice e… sedie a sdraio e tavolini. Per sempre
Anche la sensazione di sicurezza (che deve essere però reale e non solo percepita), entra nella qualificazione dello spazio urbano. Ecco allora che nella riqualificazione della città e soprattutto delle periferie, negli Stati Uniti il ridisegno delle carreggiate è oramai codificato in manuali di progettazione che vengono non solo rispettati, ma anche migliorati in base all’esperienza.
L’inserimento di isole di attraversamento, pavimenti leggermente rialzati, corridoi centrali per la svolta, il parcheggio d’emergenza per i mezzi pubblici così come per il sorpasso breve in caso di impedimento sono ormai entrati nella prassi di molte città americane. E non è raro, anzi è frequente, che in operazioni di rinnovo urbano i marciapiedi vengano allargati a scapito della corsia stradale.
E poi le aree a Zone 30 vengono chiaramente marcate, classificandole a seconda della tipologia di strada e del tipo di quartiere.
Ma anche città come Victoria Gasteiz in Spagna sono riuscite a gareggiare con intelligenza con città storicamente ciclabili e pedonabili come Stoccolma, Amburgo o Copenaghen. Tanto che nel 2012 la città è stata nominata Capitale Verde d’Europa. Una città che in soli quattro anni ha costruito 96 chilometri di piste ciclabili, dando vita ad un sistema di mobilità urbana dove la metà degli spostamenti interni alla città, il 49%, viene effettuato a piedi. In questa città la sicurezza stradale deriva allora da questo, dal fatto che 18.000 sono i ciclisti che ogni giorno effettuano gli spostamenti casa lavoro e casa scuola e per il fatto che il 16% sceglie il mezzo pubblico.
Pare che il segreto di tale successo sia dovuto al notevole coinvolgimento della popolazione, tanto che incontri mensili e settimanali con i quartieri sono stati compiuti per raggiungere le decisioni strategiche, portando così alla luce le vere problematiche. Inoltre le autorità di controllo del trasporto pubblico sono state scelte non in virtù di una tessera di partito, quanto per l’esperienza, competenza ed indipendenza, cosa che, alle nostre latitudini, è ancora fatto raro.
E poi ritorniamo al codice (nuovo) della strada che nuovo non è ma solo di nome.
Vedremo mai questi cartelli in lingua italiana?