Dopo il lockdown, che ci ha confinato nelle nostre case, è arrivato il tempo di esercitare una libertà attenta e consapevole, il tempo della responsabilità personale
C’è stato un tempo (non molto lontano e forse non ancora finito) in cui, per amore o per forza, ci siamo tutti chiusi in casa. Lo chiamano lockdowm, che suona un po’ più misterioso ed elegante di “confinamento, isolamento, blocco”. Eppure di questo si tratta.
Lo abbiamo fatto di buon grado, ed era giusto farlo. Come dimenticare alcune immagini che saranno storia del nostro secolo, storia del mondo: medici e infermieri stremati, metropoli deserte, arcobaleni alle finestre, saluti un po’ straniti dai balconi. In quei giorni suonavano veramente stonate e fuori luogo le domande del tipo: “… ma quando potrò andare in giro con la mia bicicletta? E la mia corsetta nel parco? ”. Suonavano così stonate che addirittura avevano suscitato un fenomeno altrettanto inquietante per il motivo contrario: i delatori, le spie di quelli che mettevano il naso fuori casa anche solo per arrivare all’edicola, gli eserciti schierati contro innocui (benché “colpevoli”) camminatori solitari.
Poi arriva la fase due, quella della “convivenza con il virus”. Ed è una fase in cui i divieti non basteranno più. Le maglie un po’ più larghe lasceranno spazio agli abusi e alle interpretazioni “furbe”. Una fase in cui più si entra nei dettagli (congiunti, affetti stabili…) più si rischia il ridicolo e più si stimola la “creatività trasgressiva” che pare connotare – nel bene e nel male – gli italiani.
Ma forse è proprio questo il luogo comune da spezzare. In questa fase deve per forza entrare in campo qualcosa di diverso dalla semplice “obbedienza”, qualcosa che si chiama responsabilità, cura del bene comune, attenzione ai più fragili. Non “al posto dell’obbedienza”, che in qualche caso può ancora essere una virtù, ma “accanto all’obbedienza”.
Dalle istituzioni ci aspettiamo poche regole chiare, di “cornice”, con una ratio comprensibile. E interventi fattivi che facilitino la protezione individuale e il distanziamento, una mobilità alternativa (ciclabili ovunque, bonus per l’acquisto o la riparazione di biciclette), aiuti economici a chi non ce la fa.
È un tempo in cui non ci vergogniamo più di fare – garbatamente – delle domande: che ne è dei bambini e dei loro diritti? Si può pensare a delle modalità “estive” di scuola all’aperto, per far sì che i bimbi abbiano l’opportunità di rivedere i loro compagni di asilo, di scuola? Che società ha in mente chi dice: isoliamo solo gli anziani, per “proteggerli” e tutti gli altri continuino a fare i fatti loro (quando la maggior parte dei morti anziani era proprio nelle case “protette”)? E così via…
È tempo di aggiornare gli hashtag. Da #restiamoacasa, a #restiamovivi, dotati di senso critico, solidali e connessi. Cominciamo a considerarci, a partire da noi stessi, non bimbi che fanno la marachella per fregare i vigili ma persone adulte, in grado di adottare comportamenti virtuosi.
Attenzione però, niente sconti né furbate quando si parla di responsabilità. Bisogna farlo davvero! Per se stessi e per gli altri. Esercitando una libertà attenta e consapevole.
Se no ci toccherà tornare tutti “in castigo”, e temo che la seconda volta avremo meno voglia di fare pizze e sventolare arcobaleni.
Mirella Tassoni