Progettare in rete? Sì, grazie!

Continua a investire sulla ciclabilità la nostra vicina di casa, l’Area Metropolitana di Bologna, con un altro passo verso la promozione concreta di quel “cambiamento socio culturale” di cui parla il PUMS bolognese: trasformare in modo radicale le abitudini di residenti e city users in favore di un sistema di mobilità incentrato su trasporto pubblico e mobilità attiva. Questa volta, la spinta alla trasformazione passa attraverso il Manuale di progettazione della Bicipolitana e delle sue reti locali, appena approvato dal Sindaco metropolitano. Si tratta di uno strumento di indirizzo e guida pratica per tecnici, progettisti e amministratori, che ha l’obiettivo di favorire lo sviluppo della ciclabilità su vasta scala in un’ottica di rete, attraverso una progettazione omogenea, uniforme ed inclusiva, che punta al contempo alla qualificazione dei contesti attraversati e alla riconoscibilità delle infrastrutture ciclabili.

Il Manuale di progettazione della Bicipolitana (scaricabile dal sito bicipolitanabolognese.it) si compone di quattro capitoli: Principi della Bicipolitana, ovvero le linee guida generali che sono alla base di una progettazione di qualità a livello strategico e territoriale; Spazi ciclabili, un catalogo delle diverse tipologie di collegamento ciclabile e sulla loro adeguatezza in base al contesto; Continuità e interferenze, ossia indicazioni su come assicurare la continuità, la leggibilità e la sicurezza dei percorsi ciclabili nei punti in cui sono esposti o devono per qualche motivo interrompersi; Materiali, dispositivi, dotazioni, ovvero gli elementi architettonici e tecnici propri dell’infrastruttura ciclabile, atti a garantirne un inserimento armonico nel contesto e ad assicurare massimi livelli di comfort e sicurezza per l’utenza ciclabile.

È infine presente una sezione che contiene il glossario di riferimento, il contesto normativo e l’appendice che include il documento tecnico per l’applicazione della recente Riforma del Codice della Strada (L. 177/2024).

Uno strumento che riteniamo preziosissimo, perché uniforma le indicazioni di intervento sui percorsi ciclabili sia in caso di nuove infrastrutture, sia per l’adeguamento di quelle esistenti, a tutto vantaggio dell’omogeneità e della coesione di una rete pensata nel suo insieme. E’ una visione di cui nel territorio Modenese si sente ancora acutamente la mancanza, e su cui occorrerebbe lavorare, anche se significherebbe sacrificare un po’ l’estro creativo e le doti di improvvisazione di certi progettisti locali.

Sproloquiare di mobilità

A Carnevale come da tradizione a Modena e a Carpi si “sproloquia”: la famiglia Pavironica al completo nel capoluogo e Mostardino a Carpi si sono indirizzati alla folla festante e mascherata che attendeva l’annuale scambio di battute sui mali della società cittadina. Dopo un inizio anno segnato da 6 morti in 20 giorni sulle strade modenesi, ci si poteva aspettare che venissero menzionati tra le sciagure da esorcizzare anche i problemi della sicurezza in strada. E infatti Sandrone non ha mancato di parlarne, ma con parole che lasciano amarezza: dice infatti “Un èter quel ch’am fa gnir sò la fótta l’è cla mània de strichèr el stredi per fer degl’ietri ciclabil ch’an dróva nissun. Guardèe per eseimpi via Morane: i l’han tant strichèda só che se cuma dis al codice, un automobilesta al dev ster a un méter e mezz da un in ciclo, al fa sicur un frontèl con la machina ca riva da cl’ètra pèrt.”

Avremmo pur capito una ironia sulle tante infrazioni al codice che anche noi ciclisti commettiamo, ma una volta che stiamo nella nostra corsia alla destra e pretendiamo solo di essere sorpassati in sicurezza, si dà sfogo alle frustrazioni dei cittadini in auto che sono costretti ad attendere qualche secondo e sorpassare solo quando non ci sono altre vetture in senso contrario. Cosa vogliamo, che si continui a sorpassare un ragazzo od una anziana in bici a 15 cm dal manubrio con grande rischio per il malcapitato? Per non parlare della solita volgata che le ciclabili non le usa nessuno: invitiamo la famiglia Pavironica a passare un giorno alle Morane per vedere se davvero è così.

Anche nello sproloquio di Mostardino, rediviva maschera di Carpi, c’è un accenno ad una pista ciclabile così grande da non permettere più il passaggio delle auto.

A Carnevale ogni scherzo vale, dice l’adagio, ma continua anche: “purché non faccia male”. E questo tipo di mancata empatia verso chi è già più vulnerabile purtroppo fa dei danni. Il potere della satira sta nel prendersela con chi è più potente (letteralmente “i pezzi grossi” nell’ambito stradale), perché metterli in ridicolo significa ridimensionarli un po’, e contemporaneamente fare anche un po’ di cultura. Che significa dire scherzosamente ai modenesi che se ne facciano una ragione: i restringimenti delle carreggiate e le corsie ciclabili sono misure presenti in tutta Europa a tutela di chi già sulle strade è in una posizione di fragilità, e magari ironizzare invece sulla frenesia e sulla rabbia di tanti comportamenti alla guida di pericolosi mezzi sempre più grossi e pesanti.

In tema di mobilità, la satira dovrebbe parlarci di auto ormai così larghe e lunghe da occupare ormai mezza carreggiata di transito anche quando sono parcheggiate, di marciapiedi sgarrupati ed ingombrati da ogni tipo di ostacoli, di un trasporto pubblico sempre più scarso, e non alimentare un sentimento di fastidio verso chi sulla strada è più fragile.

Perché le ciclabili olandesi sono rosse?

Quest’anno segna il 50° anniversario dell’inizio della costruzione a Tilburg della prima pista ciclabile rossa nei Paesi Bassi: una buona occasione per raccontare come mai le piste ciclabili in Olanda sono rosse e come i Paesi Bassi si sono trasformati in un paese ciclabile negli anni Ottanta.

Si, perché fino agli anni ’70, le città dei Paesi Bassi erano, come la maggior parte delle città europee, intasate di automobili con strade che non erano progettate per questo tipo di traffico. I risultati furono tragici: nel 1971, più di 3.000 persone furono uccise dai veicoli e quasi 500 erano bambini. Si formò un movimento molto attivo chiamato Stop de Kindermoord (Stop all’ omicidio dei bambini).

Tra le vittime c’era il figlio di 7 anni del politico Westerterp che quando divenne ministro dei trasporti nel 1973 sostenne numerose iniziative per aumentare la sicurezza nel traffico per tutti i tipi di utenti. Nel 1975 fece scrivere un piano pluriennale, nel quale riservò 25 milioni di fiorini (11 milioni di euro) per un “progetto dimostrativo per due piste ciclabili” che dovevano attraversare una città di medie o grandi dimensioni, includere elementi quali ponti, viadotti, incroci prioritari e strade senza auto, ed una ricerca finale sugli effetti della nuova pista ciclabile.

Tilburg presentò un progetto di 10km che correva da est a ovest e attraversava il cuore della città fino a raggiungere due villaggi (Berkel-Enschot e Oisterwijk), con uno studio sull’influenza di buone piste ciclabili tra villaggi di pendolari e centri cittadini.

I progettisti volevano dare alla pista ciclabile un colore diverso rispetto alle strade grigie, e il comitato estetico della città scelse il giallo. Ma poi si scoprì che i blocchetti stradali rossi erano più economici e quindi molto pragmaticamente il 21 aprile 1977 un orgoglioso ministro inaugurò la “Pista ciclabile rossa”.

Il piano pluriennale riservava 35 milioni per gli anni successivi, una cifra salita a 51 milioni nel 1980 (presi da un fondo delle autostrade). Da quel momento Tilburg divenne un esempio per le altre città olandesi che nel 1978, 1979 e 1980 costruirono altre 18 ciclabili con un sussidio dell’80% da parte del governo nazionale.

Cosa ci insegna oggi questa storia? Che non esiste una “tradizione”, ma che il cambiamento si può guidare con strategia politica, un finanziamento costante nel tempo, una misurazione degli effetti delle proprie scelte, ed una omogeneità progettuale che facilita tutti gli utenti della strada. Infatti, ora il colore “rosso” significa automaticamente “ciclabile” per tutti i guidatori e quindi rende molto più sicura tutta la rete ciclabile.

Bici in Comune: alta la voglia di ciclabilità nei piccoli comuni

Promuovere la bicicletta come strumento di mobilità sostenibile per migliorare la qualità della vita delle città e promuovere stili di vita sani e attivi. È questo l’obiettivo centrale del progetto nazionale “Bici in Comune”, promosso dal Ministero per lo Sport e i Giovani, con una dotazione finanziaria netta di 12.600.000 euro.

Ebbene, la risposta dei Comuni italiani non si è fatta attendere ad alla scadenza del bando sono stati ben 1952 le Amministrazioni che hanno presentato una domanda. Praticamente un Comune su quattro ha proposto azioni per realizzare percorsi ciclabili o riqualificare la rete esistente, anche in chiave tecnologica, per la promozione del cicloturismo, la valorizzazione del territorio e il coinvolgimento delle scuole.

Anche la distribuzione territoriale (43% dal Nord Italia, per il 39% dal Sud e dalle Isole e per il 18% dalle regioni del Centro) dimostra una trasversalità di domanda, così come è notevole rimarcare come l’iniziativa del Governo sia stata apprezzata soprattutto dai Comuni fino a 5mila abitanti, con un totale di 1011 domande pervenute, mentre 853 sono state quelle inviate dai Comuni con meno di 50mila abitanti.

Afferma il Ministro Andrea Abodi “l’inequivocabile certificazione del gradimento degli amministratori locali rispetto all’iniziativa del Governo che promuove non solo la mobilità sostenibile e il turismo lento … vogliamo fare in modo che gli sport a dimensione urbana e caratterizzati dalla pratica quotidiana, rappresentino una sempre più diffusa opportunità, contribuendo a trasformare le città”.

Nel nostro piccolo abbiamo collaborato alla presentazione dei progetti per tre comuni Modenesi (Campogalliano, Mirandola, Sassuolo) perché siamo da sempre a fianco delle amministrazioni che si impegnano su questo fronte.

E’ ovvio che la dotazione del bando risulterà insufficiente a soddisfare tutte le richieste, e dimostra come la cancellazione nel 2022 di 94 milioni di euro dal “Fondo per interventi di realizzazione di nuove piste ciclabili urbane” ed il taglio nel 2023 di 400 milioni per le ciclovie turistiche siano stati poco lungimiranti. Speriamo che questo segnale che arriva da tutti i piccoli comuni sia recepito in futuro con un ripristino adeguato dei finanziamenti.

Ricordiamo sempre che i Paesi Bassi investono in ciclabilità 510 milioni di euro all’anno: sono 30 euro per ogni cittadino ben spesi, vista la moltitudine di benefici sociali che generano.

In bici al lavoro: si rischia ancora troppo

Domenica scorsa è stata collocata una bici bianca nel punto della Via Emilia in cui un ragazzo di nemmeno 20 anni che si stava recando al lavoro è stato ucciso in uno scontro con due automobilisti, di cui uno non si è fermato a prestare soccorso.
FIAB promuove da anni il bike-to-work, il pendolarismo lavorativo in bicicletta, consapevole che se un numero maggiore di persone si recasse al lavoro pedalando, la forza dei numeri garantirebbe una maggiore sicurezza, ma è un dato di fatto che la percezione del rischio è un deterrente potentissimo, e a ragione.
Chi pedala verso il luogo di lavoro rischia ancora troppo: le infrastrutture per una mobilità ciclistica sicura sono ancora carenti o inesistenti; la distrazione, la velocità e la fretta di chi guida un veicolo possono risultare fatali per chi non ha la protezione di una scocca di acciaio. La sicurezza così diventa un privilegio di chi si sposta in auto e la libertà di usare un veicolo privato va a scapito della libertà di scegliere di muoversi diversamente senza rimetterci la vita.
Come tutti i privilegi, costa caro: a chi l’auto la guida (in  costo del veicolo e carburante), ma anche alla collettività, in inquinamento, sedentarietà, stress e inefficienza dei trasporti. Già, perché quella che sembra una scelta razionale (prendo l’auto così faccio prima), moltiplicata per le migliaia di persone che devono recarsi al lavoro giornalmente ci si ritorce contro: code chilometriche, ingorghi, impossibilità di parcheggiare. Mentre le alternative a due ruote non sono percorribili perché risultano troppo pericolose.
C’è chi si ricorda che nel dopoguerra dai Comuni dell’immediata periferia di Modena partivano gruppi di colleghi in bicicletta diretti ai luoghi di lavoro nel capoluogo: 6-7 chilometri, pedalati senza fretta, volevano dire una quarantina di minuti di tragitto. Ora da quegli stessi Comuni partono centinaia di auto, e quei 6-7 chilometri si traducono di nuovo in una quarantina di minuti di tragitto per via del traffico, e per fare movimento poi si va in palestra. Così ci si rimette tutti, in soldi, salute, serenità, qualità dell’aria e della vita. E’ questo il progresso? Una città progredita come minimo deve permettere ai suoi cittadini di esercitare una reale libertà di scelta: se continuare a usare l’auto privata oppure inforcare una due ruote, senza temere per la propria incolumità. Anzi, no: una città progredita dovrebbe facilitare la scelta più conveniente, per il singolo e per la collettività.

Ancora con questa storia che i pedoni si buttano?

Gli ultimi dati consolidati ISTAT 2023 ci dicono che sulle strade italiane sono morti 485 pedoni, e purtroppo la stima preliminare di ASAPS per il 2024 ci riporta ancora 475 decessi (ma il numero definitivo ISTAT sarà quasi certamente peggiore).

E non è iniziato meglio il 2025: sempre secondo ASAPS, sono 43 i decessi nel mese di gennaio (di cui 23 avevano più di 65 anni) con un deciso incremento rispetto ai 31 di gennaio 2024. Di notevole sconforto il fatto che 26 investimenti mortali sono avvenuti sulle strisce pedonali. Sintetizzando, in un mese +38% di pedoni morti, di cui il 53% over65 e 60% sulle strisce pedonali: a fronte di questi numeri impressionanti, ciò che avvilisce è l’accettazione passiva di questa mattanza, a partire dall’opinione di quei cittadini che scaricano la colpa sulle vittime, nonostante i numeri certifichino essere in maggioranza persone di una certa età sulle strisce pedonali che difficilmente si “buttano” senza guardare.

Ma certo non fanno di meglio le istituzioni che non hanno ancora trovato il modo di arginare il fenomeno. Anzi, recentemente una campagna sicurezza della regione Lombardia è stata sospesa, ammettendo «passaggi fuorvianti» come «molti pedoni danno per scontato di avere sempre la precedenza, senza tenere conto che la sicurezza dipende anche dalla loro attenzione».

La realtà è che il fenomeno dei pedoni che “compaiono” sulle strisce è da addebitare principalmente a fattori legati a comportamenti di chi guida. Per primo alla distrazione: manuale (maneggiare sigarette, rasoi, trucchi, bere o mangiare), visiva (guardare il navigatore, leggere un messaggio, cercare qualcosa) o cognitiva (pensare a problemi, ripassare mentalmente un discorso, organizzare la giornata). Tutti comportamenti che dilatano tempi e spazi di frenata. Poi alla velocità: già a 50kmh il cono visivo di chi guida è la molto più stretto che a 30kmh, con l’effetto che tutti gli oggetti periferici vengono catturati dagli occhi ma rimossi dal cervello (il pedone c’è ma non si vede). Ed infine al parcheggio irregolare che riduce di molto la visibilità nelle vicinanze di attraversamenti pedonali.

D’altronde ricerche ANAS del 2023/24 concludono che il voto che gli italiani danno a sé stessi come guidatori è quasi 9, mentre il giudizio che hanno degli altri guidatori si attesta solo su una media di 5.4. Addirittura, per il 51% degli italiani non è pericoloso superare i limiti di velocità, soltanto il 34,7% ritiene utile rispettarli mentre il 16,4% ritiene che un guidatore esperto possa superarli.

Victim blaming, sopravalutazione delle proprie capacità, negazione degli effetti della velocità: è difficile sperare di avere meno pedoni morti sulle strade.

Bologna Città 30, una ricetta vincente

La Città 30 salva vite, incentiva la mobilità attiva e riduce lo smog. In sintesi non ha controindicazioni: fa solo del gran bene alle persone e all’ambiente, e a confermarlo sono i dati del primo anno di Bologna Città 30. Si dimezza il numero delle persone decedute sulla strada (10, -49% in meno), toccando su base annua il minimo storico dal 2013 a oggi (salvo il periodo Covid a mobilità limitata). Per la prima volta dal 1991 (il dato Istat più vecchio disponibile a livello cittadino), nessuna persona a piedi è stata uccisa sulle strade di Bologna: sono infatti zero i pedoni deceduti, e si riducono del 16% quelli investiti. Calano poi del 31% gli incidenti più gravi (“codice rosso”).

Come è successo nelle Città 30 di tutto il mondo, anche a Bologna è diminuito il traffico veicolare (-5%) e sono aumentati gli spostamenti in bicicletta: 1,58 milioni di passaggi ai contabici nel 2024 rispetto alla media di 1,44 milioni dei due anni precedenti, mentre il servizio di bike sharing gestito da RideMovi per la prima volta ha sfondato il muro di 3 milioni di corse in totale (1.275.558 corse in più nel 2024, +69% rispetto alla media 2022 e 2023).

Contrariamente ai timori di chi sosteneva che rallentando le auto sarebbe aumentato l’inquinamento, si è registrata una significativa riduzione del livello di NO2 (biossido di azoto), inquinante legato ai processi di combustione locali (veicoli a motore termico, impianti di riscaldamento domestico), che non si disperde facilmente. Nella centralina ARPAE di Porta San Felice, il valore medio orario di 29 µg/m3 registrato nel 2024 (al 30 novembre, ultimo dato disponibile), infatti, è in calo del 29,3% rispetto alla media annuale del 2022-2023 (41 µg/m3). In termini assoluti è il dato più basso degli ultimi 10 anni.

Sono dati importanti che fanno risaltare per contrasto anche la situazione di stasi asfittica di Modena: spostamenti in bici in calo da anni, una percezione di insicurezza diffusa e alimentata dai troppi pedoni e ciclisti falciati sulle strade e sulle strisce pedonali, incluse persone anziane e mamme con passeggini di cui non si può certamente dire “si sono lanciati sull’attraversamento”.

La cosiddetta Città 30 è ad oggi l’unica ricetta di provata efficacia di cui siamo a conoscenza per creare città più sicure, vivibili, sane, accessibili a tutti inclusi anziani e bambini: gli amministratori che la osteggiano o temporeggiano devono assumersi la responsabilità politica e morale delle morti che a causa di questa inazione non saranno evitate.

I danni del pensiero semplice: avremo imparato qualcosa?

Nelle ultime tre settimane vi abbiamo proposto una serie di articoli su alcune semplificazioni adottate negli ultimi decenni nelle nostre città che hanno prodotto diversi danni sul tessuto urbano, ed una preoccupante assuefazione dei cittadini a vivere in città sempre più brutte ed inospitali.

In quelle riflessioni sono stati semplicemente riportati gli effetti delle trasformazioni urbane già evidenti dapprima nelle città americane e poi in Nord Europa, ed alle quali anche i paesi mediterranei purtroppo si sono adeguati alla fine del Novecento. Zonizzazione delle funzioni delle città, separazione dei flussi degli spostamenti, marginalizzazione dei cittadini non motorizzati hanno dato il loro contribuito alla disgregazione di un tessuto sociale unico come quello italiano.

E’ interessante sapere che quegli articoli sono stati pubblicati originariamente nel 2010 sul nostro giornalino trimestrale “Infobici”, e risulta evidente che in questi 15 anni non è cambiato nulla nelle pratiche urbanistiche. E ciò è tanto più grave in quanto si deve prendere atto che i problemi della qualità dei rapporti nello spazio pubblico, nel frattempo, sono stati amplificati da fenomeni globali come la progressiva digitalizzazione del commercio e dei servizi (nonché delle relazioni umane), un turismo sempre più invadente, un crescente flusso immigratorio mal gestito, una economia da reinventare ed un cambiamento climatico sempre più repentino. Tutto passando da una pandemia che, oggettivamente, ha acuito ed esacerbato le tensioni e le diffidenze interpersonali.

Le città devono cambiare in fretta per adattarsi alle nuove sfide che vedono il bisogno di recuperare in ogni quartiere le funzioni di aggregazione e condivisione pacifica dello spazio: lo stanno facendo in tutta Europa e sembrano averne consapevolezza anche i tanti cittadini attivi modenesi che nei recenti laboratori partecipati hanno chiesto all’amministrazione luoghi pubblici più verdi, più accoglienti, puliti, più inclusivi di ogni età e fascia sociale, con un’urbanistica che unisce, facilità gli spostamenti e le funzioni di prossimità e non separa e riserva 80% dello spazio pubblico ad asfalto.

Perché, come scriveva il nostro presidente Giorgio Castelli nel 2010, “certamente non si può attribuire l’attuale senso di insicurezza alle sole scelte urbanistiche, ma è altrettanto certo che strade anonime producano gente anonima ed insicura”.

I danni del pensiero semplice: la gestione residuale della mobilità ciclabile/3

Riproponiamo una serie di articoli pubblicati sulla nostra rivista Infobici nel 2010, ma che ci sembrano ancora molto attuali (*).

La sicurezza delle persone, nella circolazione stradale, rientra tra le finalità primarie perseguite dallo Stato. Le norme ed i provvedimenti (devono): ridurre i costi economici, sociali ed ambientali che deriva dal traffico veicolare, migliorare il livello di qualità della vita dei cittadini, migliorare la fluidità della circolazione.

Questo non è il manifesto della FIAB ma il 1° articolo del Codice della Strada. Chi gestisce la mobilità urbana dovrebbe quindi privilegiare i mezzi più sostenibili, meno ingombranti e inquinanti, offrendo al cittadino la possibilità di scegliere tra andare a piedi, in bici, in autobus o in auto, a seconda degli spostamenti che deve fare. Ma per poter scegliere bisogna che tutte le modalità siano equamente confortevoli, sicure e convenienti.

Il pensiero semplice, che spesso guida le scelte degli uomini “del fare”, parte invece dalla convinzione che a piedi, in bici e coi mezzi pubblici si muovano le persone che non si devono preoccupare dei tempi di percorrenza: gli anziani ed i meno abbienti oppure tutti gli altri solo nel tempo libero. Per la loro sicurezza è quindi necessario realizzare una viabilità separata, protetti da barriere, paletti o transenne, oppure portati in alto o in basso per non attraversare il traffico auto. Provate la gimcana per bici (non si può chiamare pista) che unisce Saliceta San Giuliano a Baggiovara e che contiene buona parte delle soluzioni da pensiero semplice.

Mentre nei documenti ufficiali si afferma che le priorità sono chiare: 1° trasporto pubblico in sede propria, 2° estensione delle ciclabili, e solo 3° il potenziamento della viabilità dove vi sono gravi punti di congestione (Piano Urbano Mobilità Modena 2005), poi nella realtà non si fanno investimenti coerenti. Per Modena, ad esempio, si dovrebbero spendere per pedoni ed i ciclisti più del 13% degli investimenti dedicati alla mobilità, e dovrebbero essere presi provvedimenti che facilitino prioritariamente la loro circolazione. Invece si sprecano circa 3 milioni di euro all’anno per 30 anni per realizzare e mantenere il parcheggio del Novi Sad.

Il pensiero semplice non persegue l’armonizzazione della mobilità attraverso l’abbassamento delle velocità assolute, il freno all’uso dell’auto e l’incentivo verso gli altri mezzi e non riesce a comprendere che la qualità della vita e la fluidità del traffico urbano passa da un riequilibrio con scelte coraggiose per la tutela dei bisogni reali dei cittadini.

(*Infobici Ottobre 2010)

I danni del pensiero semplice: la gestione superficiale della mobilità/2

Riproponiamo una serie di articoli pubblicati sulla nostra rivista Infobici nel 2010, ma che ci sembrano ancora molto attuali (*).

Nello scorso articolo abbiamo visto i principali danni che il pensiero semplice provoca alla sicurezza e alla qualità della vita delle nostre città. Ma altrettanto gravi sono i danni generati dalla gestione superficiale della mobilità, che mira più alla segregazione ed alla separazione, che all’integrazione e alla convivenza dei mezzi di trasporto.

Con una visione che potremmo definire “idraulica” del traffico, si pensa che gli automobilisti seguano le stesse regole dei fluidi, dimenticando che anche i comportamenti di guida sono fortemente influenzati dalla forma degli spazi urbani. Nascono così ricette per “smaltire” il traffico, inconsciamente assimilato ai rifiuti, che generano strade extraurbane in città, con lunghi rettilinei e corsie larghe tre metri e mezzo.

Così, invece di rendere più fluido e più sicuro il traffico, si aumentano le velocità di punta dei veicoli e si permette la sosta abusiva sui lati delle strade. Salvo, poi, montare i dossi rallentatori per abbassare l’intollerabile numero di incidenti che, generalmente, sono maggiori di quelli che si verificano nel centro storico, pieno di strade contorte e di incroci senza visibilità.

Il pensiero semplice confonde la percezione della sicurezza con la sicurezza reale, dimenticando che dove ci si sente sicuri si aumenta la velocità e si rischia la propria e l’altrui vita. In una visione disattenta si riducono i marciapiedi al minimo consentito, invece che limitare le corsie stradali allo spazio strettamente necessario. In cerca di consenso, si dimentica che la normativa per la costruzione delle strade recita espressamente: “nelle strade residenziali prevale l’esigenza di adattare lo spazio strada, ai volumi costruiti ed alle necessità dei pedoni” e “in queste il progettista dovrà provvedere opportuni accorgimenti, sia costruttivi che di segnaletica, per il contenimento delle velocità praticate”.

È sconfortante vedere che la nostra città, che per secoli ha realizzato portici e piazze negli spazi centrali più preziosi, favorendo la crescita del senso civico, ora spreca territorio e risorse per far correre ed immagazzinare le automobili. Una gestione attenta richiederebbe invece una migliore integrazione tra le modalità di spostamento, per offrire ai cittadini scelte più consapevoli, centrate sulla sicurezza e sulla convivenza civile. (-continua)

(* Infobici – Luglio 2010)